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Intervista a Cristina Zenato, ecologista esperta nel comportamento degli squali, in cui si parla del linguaggio e della sua importanza nel modellare la realtà in cui viviamo.
Tutti noi abbiamo parlato di qualcuno, almeno una volta nella vita, definendolo uno “squalo” ovvero una persona arrivista, opportunista e senza scrupoli. Facciamo tale associazione, coinvolgendo anche altri animali, in base all’interpretazione del comportamento di questi secondo criteri umani e culturalmente relativi. L’antropomorfismo è una tendenza che accompagna l’uomo da tempi remoti e risponde alla sua esigenza di decifrare, dare una forma appunto, a ciò che non conosce.
L’aspetto negativo è che ci dimentichiamo che l’attribuzione di caratteristiche umane agli animali è conseguenza di un’interpretazione approssimativa e grossolana e finiamo per credere che il comportamento affibbiato sia reale ed oggettivo. La gallina è stupida, la volpe è furba, il serpente è malizioso e gli squali sono assassini opportunisti che non aspettano altro che attaccare qualsiasi cosa incontrino sul loro cammino.
Ma ci siamo mai fermati a pensare alle conseguenze che questo ragionamento ha sulla vita degli animali? Nel caso degli squali si è venuta a creare una sorta di demonizzazione che alimenta il nostro terrore nei loro confronti e che, a sua volta, si traduce in una mancanza di empatia e rispetto: la vita di uno squalo non è così importante, soprattutto se consideriamo che la sua esistenza potrebbe mettere in pericolo la nostra.
Per arginare questa tendenza, ci viene in soccorso l’osservazione scientifica che, negli ultimi anni, ha messo una freno, con dati e numeri, a tali interpretazioni e ha favorito una visione più aderente alla realtà e meno antropocentrica. Ma soprattutto, la scienza ci rende coscienti della somma importanza della presenza degli squali per mantenere l’ecosistema marino sano e, di conseguenza, il benessere degli esseri umani che vivono sulla terra.
Tutte le dinamiche descritte sopra, si servono del linguaggio, delle parole, come mezzo per diffondersi, darsi a conoscere e plasmare la realtà in cui viviamo. Se noi docenti abbiamo il compito di insegnare le parole alla base della comunicazione, non possiamo tralasciare il lavoro fondamentale di contestualizzarle, di aiutare i nostri studenti a capirne il significato e renderli coscienti degli effetti che il loro uso può generare. Non esistono parole neutre, avulse dal contesto, anzi, per citare Carlo Levi, potremmo affermare che “le parole sono pietre”, hanno in sé la forza di creare e cambiare mondi. Quindi, per creare un mondo eticamente e moralmente più giusto, è fondamentale iniziare scegliendo le parole giuste.
Parliamo di tutto questo con Cristina Zenato, ecologista specializzata nel comportamento degli squali, che, nel suo lavoro di salvaguardia di questi animali, ha individuato proprio nel linguaggio un potente alleato e strumento di cambio.
Com’è finita un’italiana a vivere alle Bahamas?
Quest’anno festeggio il trentesimo anno qui. Nel 1994 andai in un’agenzia di viaggi alla ricerca di una destinazione per fare un corso di subacquea e mi offrirono di andare alle Bahamas. Una volta completato il corso, venni a sapere che cercavano una persona che parlasse le lingue per lavorare nella struttura dove ero stata. Presi dieci giorni per tornare in Italia, chiudere alcuni capitoli della mia vita, lavoro, fidanzato, appartamento e tornai a Grand Bahama, dove risiedo tuttora.
Come è nata in Lei la passione per gli squali?
Sono cresciuta in una famiglia che viene dal mare e mi ci portava sempre. Una famiglia che mi ha insegnato ad avere una relazione sana con la natura e a comprendere che “non ci sono mostri nel mare, solo nella nostra testa.” Il mio sogno era di diventare guardia marina subacquea: in questo modo mia mamma non mi avrebbe mai potuto dire che dovevo uscire dall’acqua! Sognavo di andare in giro per il mondo sulle barriere coralline, con un gruppo di squali per amici, per dire ai sub quello che potevano o non potevano fare.
Nel suo profilo Instagram racconta le interazioni con gli squali attraverso delle foto e dei video che a me, personalmente, trasmettono tenerezza e profondo rispetto per la natura.
Quando sono con gli squali mi sento a casa, sento di essere in un posto tranquillo. Mi affascinano, provo curiosità e amore. Mi piacerebbe che il mondo li vedesse con i miei stessi occhi. Ogni squalo è un individuo con una sua personalità propria, un carattere e, con ognuno di loro, ho una relazione diversa. Letteralmente gli voglio bene: il cuore si riempie di gioia quando li vedo e, di dolore, quando qualcuno viene a mancare. Attraverso l’esperienza accumulata negli anni di lavoro, so più o meno che età hanno e riconosco quando i segni della fine di vita si avvicinano.
Scommetto che molte persone, guardando i suoi video, potrebbero pensare che sia una temeraria o un’incosciente… da dove viene la nostra paura, per non dire terrore, verso questi animali?
Secondo me, nasce da un sentimento di inadeguatezza. Come essere umani abbiamo conquistato ogni angolo del mondo, siamo in grado di vivere in tutti gli ambienti usando quello che c’è a disposizione per la nostra sopravvivenza. In acqua, invece, non abbiamo nulla per aiutarci. Non vediamo, non respiriamo, non abbiamo isolamento termico: anche il nuotatore più esperto è lento se lo paragoniamo a qualsiasi pesce. Se fossimo in mezzo al mare, non troveremmo un angolo dove rifugiarci e passare la notte. Questo senso d’impotenza aumenta con la presenza in acqua degli squali, percepiti erroneamente solo come predatori.
Dal nostro subconscio ci assale un senso di paura, di terrore, causato dall’impossibilità di modificare un ambiente a nostro vantaggio; ambiente che, invece, viene sfruttato alla perfezione da un animale come lo squalo. La nostra arroganza viene messa in crisi da un animale preistorico. E così, sia la gente che non hai mai nuotato, che non ha mai visto uno squalo, sia quella che, pur essendo andata al mare migliaia di volte, non ha comunque mai avuto un’esperienza negativa, sviluppa questo senso di paura per l’ignoto, verso qualcosa che non può controllare. Un vero e proprio attacco alla nostra arroganza.
Come influisce il linguaggio sulla visione che abbiamo degli squali? Quali sono i fattori che influiscono nella formazione dell’idea che abbiamo degli squali?
Il linguaggio è chiave nella visione che abbiamo degli squali. Le parole hanno un peso considerevole. Io faccio parte di un’associazione senza scopo di lucro che si chiama “Mind Your Language” (Stai attento a come parli) che ha come obiettivo quello di cambiare la narrativa dei media nei confronti degli squali. Nel linguaggio dei media, ad esempio, si parla di “acque infestate” dagli squali quando, in realtà, loro ci appartengono di natura, non infestano. Stessa cosa per l’espressione “in agguato lungo la riva”: la riva, maggiormente frequentata dai bagnanti, fa parte del mare, la casa naturale degli squali, non è un’eccezione, un posto dove questi animali non dovrebbero stare.
Gli squali usano la bocca per mangiare, ovvero mordono. Nei media si usa l’espressione “attacco” che ha un significato negativo: un atto di violenza mirato a nuocere, a pregiudicare gli altri (come ad esempio un attacco in uno scippo, per rubare una borsa). Non possiamo giudicare un animale dal modo in cui mangia e paragonarlo al nostro modo di mangiare: è come dire che un cane è maleducato perché non usa forchetta e coltello. Altre espressioni negative usate per parlare degli squali sono: “minaccioso”, “aggressivo”, “assassino” ecc.
Quindi il ruolo dei mass-media è chiave nel determinare questa situazione?
Purtroppo è fondamentale per due motivi. Il primo, come abbiamo visto, è legato alle parole usate per descrivere gli squali che, a volte, sfiorano addirittura il ridicolo. Per esempio, nelle coste inglesi ci sono gli squali elefante, grandi animali che filtrano l’acqua per mangiare plancton, come le balene. Quando sono avvistati, i media iniziano freneticamente a descrivere come pericolosa e negativa la loro presenza usando espressioni come “predatori minacciosi, in agguato vicino alla riva.”
Il secondo motivo riguarda la diffusione, a livello mondiale e ad incredibile velocità, di qualsiasi caso di morso di squalo a persone, facendo in modo che questi fatti isolati sembrino in realtà molto numerosi. Se guardiamo i numeri dei morsi di squalo a persone, possiamo renderci conto che stiamo parlando di eventi estremamente rari, soprattutto paragonati al numero di persone che entrano in acqua ogni giorno.
Per esempio, un paio di anni fa, uno squalo ha morso ed ucciso un nuotatore in Australia. La notizia ha fatto il giro del mondo in pochi minuti; tutti i media hanno parlato della notizia dando grande spazio ai racconti dei testimoni. Se i media avessero intervistato anche tutti coloro che quel giorno erano andati a nuotare nello stesso luogo, prima, durante e dopo l’evento ed avessero dato a tutti un minuto per parlare, avremmo avuto come minimo duecento minuti di interviste che parlavano di una giornata tranquilla, contro i dieci minuti dei racconti dei testimoni dell’incidente. Questo ci dovrebbe far capire la discrepanza tra la remota eventualità di un morso e l’attenzione mediatica esagerata che riceve.
Sappiamo oggi che molte specie di squali sono in rischio di estinzione: perché sono tanto importanti ed è necessario proteggerli?
La nostra esistenza su questo pianeta dipende dalla salute degli oceani. La presenza degli squali è fondamentale per mantenere un equilibrio naturale (in Inglese si chiamano specie Key-Stone: senza la loro presenza, l’ambiente ecologico in cui vivono collassa, incapace di sostenersi). La salute del mare determina la nostra salute. Tante persone vivono mangiando pesce; gli squali sono i guardiani della salute, distribuzione e presenza del pesce che tanti usano come sostentamento alla base della loro dieta.
Cosa si può fare per cambiare questa situazione?
L’educazione è sempre la chiave migliore per cambiare una situazione; bisogna educare le persone sul ruolo degli squali nel nostro ecosistema. Con l’educazione arriva la comprensione e si può procedere al passo successivo: la legislazione. Per cambiare il destino degli squali, si devono cambiare le leggi riguardo a pesca e commercio.
Come vorrebbe che la gente vedesse gli squali?
Come essere viventi, capaci di pensare, di sentire, di decidere. Come animali che sono su questo pianeta prima ancora che gli alberi, nati prima degli anelli di Saturno, chiave essenziale dei sistemi ecologici a cui appartengono, senza la cui presenza ci potremmo trovare di fronte ad un collasso naturale catastrofico.
Soprattutto mi piacerebbe che la gente vedesse gli squali per la loro vulnerabilità causata dalla nostra presenza: pesca indiscriminata, sviluppo umano nelle aree costiere che tolgono loro spazio dove rifugiarsi e allevare i piccoli. Animali vulnerabili che attacchiamo ogni giorno con inquinamento, luce, suoni, plastica, componenti chimici e che diffamiamo senza nessun motivo.
A parte gli squali, Lei si dedica anche alla speleologia subacquea. Squali, claustrofobia (il tutto in un ambiente, quello sottomarino, non esattamente congeniale alla vita degli esseri umani): sembra che abbia deciso organizzare la sua quotidianità convivendo con alcune tra le più generalizzate paure dell’uomo. Come gestisce queste situazioni? Cosa le fa veramente paura?
La mia paura più profonda è sempre stata quella di vivere una vita poco profonda, cercando di rientrare in un ruolo che mi è stato imposto culturalmente e socialmente ma che non mi sono scelta. Non voglio avere la sensazione di vivere chiusa dentro una scatola, aspettando con ansia il fine settimana o il mese successivo. La mia vita è in questo momento, tutto il resto è una sorpresa.
Mi fa paura chi vive senza un contatto con la natura, senza capire la nostra relazione con il pianeta, chi vive in una realtà sempre e solo creata dall’uomo, che non accetta altre creature come parte della nostra vita con cui dobbiamo assolutamente imparare a coesistere (e non parlo solo di squali) e che cerca di dominare tutto ciò che ci circonda.
Mi fa paura l’ignoranza, intesa come mancanza d’istruzione e di cultura, mancato possesso di nozioni o d’informazioni su una data materia o su determinati avvenimenti perché con l’ignoranza finiamo per bruciare le streghe al rogo.
Lei vive da tempo lontana da casa: c’è qualche aspetto della nostra cultura che si porta dentro e che la fa sentire legata alle sue radici, che le ricorda di essere italiana?
Considerando che per i primi 14 anni della mia vita sono cresciuta tra la savana del DRC (ex Zaire) e la foresta pluviale del RC (ex Congo) e che a 22 anni mi sono trasferita alle Bahamas dove vivo da 30, per la maggior parte degli Italiani sono poco “Italiana”.
L’essere Italiana credo si manifesti nei dettagli, in ciò che ho studiato a scuola, soprattutto paragonato alla cultura molto più giovane degli USA, che esprimo con espressioni, ricordi di passaggi di poesie, storie e libri che ho letto.
Le mie amiche dicono che si manifesta quando mi vesto, non importa per cosa, mi fanno notare come sono in grado di prendere due pezzi d’abbigliamento ed essere elegante (io non lo vedo e non lo faccio di proposito).
Io la sento in due dettagli: il primo è il piacere di stare a tavola durante un pasto a chiacchierare per ore ed ore (negli USA e Bahamas, la gente si siede, mangia, paga il conto e se ne va).
Il secondo è che ogni giorno uso la caffettiera e il caffè, Lavazza o Pellini, granulato fine. Io sono rimasta vecchio stile, ogni mattina, pulisco la caffettiera e ne preparo un’altra: non c’è suono migliore per cominciare la giornata. In un certo senso mi rende triste che gli Italiani, inclusa mia mamma, abbiano la macchinetta automatica a casa. Così quando torno in Italia tiro fuori dall’armadietto la vecchia Bialetti e mi faccio ancora il caffè come facevo una volta e come faccio tuttora alle Bahamas.
Se volete conoscere meglio Cristina e i suoi progetti, potete dare un’occhiata, oltre al suo profilo Instagram, ai seguenti siti web: